Le riflessioni che qui si propongono, suddivise per provincia, proposte da ricercatori che da tempo frequentano la storia del proprio territorio, rappresentano un sicuro passo in avanti all’interno del panorama storiografico regionale.


In una stagione precedente di studi, centrale era stato il tentativo di spiegare i motivi dell’ascesa al potere del fascismo e del suo lungo dominio del paese. Da qui una lunga serie di studi, fondamentali per approfondire lo stato delle conoscenze ma ancora poco attenti alla necessità di meglio coordinare, col fine di offrire un quadro complessivo che non sacrificasse le specificità, i risultati ottenuti utilizzando differenti scale d’analisi.

La relazione tra lo svolgersi degli eventi sui differenti piani, quello locale e quello nazionale, era cioè solamente suggerita; non si riteneva cioè necessario, ritenendola forse una semplice conseguenza del dispiegarsi di gerarchici rapporti tra centro e periferia, avviare una rigorosa analisi dei nessi e delle ricorrenze. Come avviene per ogni oggetto storico, il cambiamento di contesto ha aperto la possibilità di nuove prospettive analitiche; in particolare, ha imposto un aggiornamento della storiografia della cosiddetta fase della conquista, che, tenendo conto dello sguardo obliquo proprio delle discipline antropologiche e geografiche, consentisse di aggiornare la lettura alla luce della modificazione delle fondamentali categorie di violenza e di territorio. Il risultato è una combinazione di vecchio e di nuovo, che se da un lato conferma le dinamiche di conquista del potere locale per mezzo della violenza, espressa secondo modalità schiettamente militari, primariamente indirizzata all’affermazione del fascismo quale unico soggetto in grado di esercitare il monopolio della violenza, dall’altro rilegge però molte consolidate convinzioni. Perché se è vero che in alcune aree della regione lo squadrismo seppe organizzarsi in senso centralizzato, attorno al ras e al sistema di potere locale, necessariamente provinciale, dallo stesso imposto, nella maggior parte dell’Emilia-Romagna il fascismo avanzò però a fatica, soffrendo il radicamento dei partiti popolari, patendo l’influenza sociale dei gruppi conservatori suoi alleati e palesando una preoccupante propensione allo scontro tra fazioni. Cosa allora permise la vittoria squadrista? Senza dubbio un ruolo importante ebbe la pratica della violenza, da intendere sia quale fondamentale pietra di volta della costruzione identitaria fascista, sia quale cruciale strumento di comunicazione verso l’esterno della inflessibile risolutezza delle camicie nere. Grazie all’uso della violenza, che il discorso fascista seppe legare al gigantesco deposito di argomenti, parole e giustificazioni degli anni di guerra, vari segmenti sociali, specie quelli che avevano da poco raggiunto la condizione proprietaria, si sentirono infatti sufficientemente forti per rifiutare la subordinazione al sistema di valori, nonché alle regole di comportamento, che il movimento socialista aveva imposto nelle campagne. La violenza quindi non solo agì nel senso della destrutturazione dei contro-mondi rossi, disarticolando e condannando alla sconfitta l’intero movimento socialista, ma permise a una parte dei suoi abitanti di riorganizzare quelle comunità rurali sulla base di gerarchie e regole affatto differenti. Ma la vittoria squadrista fu anche determinata dalla capacità d’imporre il dominio delle camicie nere, in tempi rapidissimi e senza concessione alcuna, su un intero ambiente: la Bassa, dalla val Tidone alla foce del fiume Po, rappresentò infatti un sicuro fortilizio, da cui muovere per conquistare, dopo avere consolidato avamposti nelle terre vecchie appoderate, prima le città capoluogo e poi le più lontane – non solo dal punto di vista chilometrico – zone collinari. Proprio la riconfigurazione dello spazio squadrista, che si forma ondata dopo ondata, procedendo secondo vettori d’espansione obbligati e quindi facilmente prevedibili, pone una volta di più, con forza se è possibile aumentata, la questione della pesante responsabilità delle istituzioni liberali. Se è vero che per gran parte del 1921, e in alcuni casi ben dentro al 1922, lo squadrismo controllò una porzione tutto sommato limitata del territorio regionale, appare allora inevitabile tornare a guardare a chi l’infezione avrebbe dovuto contenere e sconfiggere, domandandosi quanto sia stato complice del sovvertimento che in teoria sarebbe stato suo compito impedire. Ecco allora che dal locale il discorso si sposta sul piano nazionale, raccordando le diverse scale dell’interpretazione storiografica e consentendo allo studio della conquista fascista della regione di offrire nuove ragioni alla ricerca sull’affermazione in Italia del movimento fondato da Benito Mussolini.  Le riflessioni che qui si propongono, suddivise per provincia, proposte da ricercatori che da tempo frequentano la storia del proprio territorio, rappresentano un sicuro passo in avanti all’interno del panorama storiografico regionale. A dimostrazione che, ad un secolo di distanza dagli avvenimenti, l’argomento della conquista squadrista del territorio emiliano-romagnolo rimane un cantiere di ricerca ancora straordinariamente vitale.

Andrea Baravelli